Il Codice fiorentino

codice miniato
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Ovvero il manoscritto davvero unico, risalente al 1577, a cura del missionario francescano Bernardino de Sahagun che, vestiti i panni del “moderno antropologo“, spese l’intera vita allo studio della cultura delle Americhe, al seguito dei “conquistadores spagnoli“.

A partire dal 1588, con la collaborazione di alcuni giovani Nahua, raccolse le testimonianze dei nativi e compilò un’enciclopedia senza precedenti sulle popolazioni e le culture del Messico centrale: dodici libri redatti in lingua Nahuatl e tradotti in Spagnolo, con oltre 2000 disegni a colori di straordinaria suggestione.

L’opera manoscritta, dal titolo originale “Historia General de Las Cosas Nahuatl“, costituì una fonte di informazioni eccezionale sui miti, le credenze, e le pratiche religiose, la vita quotidiana, la storia e persino le abitudini alimentari degli Atzechi; fu corredata di ampie sezioni dedicate a flora e fauna locali e da un ampio resoconto sulla conquista dei luoghi e le sue devastanti conseguenze.

La stesura del Codice richiese circa trent’anni di lavoro da parte di molte mani missionarie ed indigene e la sua versione definitiva, contenuta in più volumi, oggi custoditi presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, è costituita da testi bilingue “nahuatl/spagnolo“, corredati da oltre 2600 immagini dipinte: l’idioma Nahuatl alfabetizzato” era tradizionalmente rappresentato in “scrittura-pittura“, che serviva laddove le parole non si rivelavano sufficienti.

Di particolare bellezza, sono le minuziose descrizioni dei banchetti offerti dai ricchi mercanti e raccolte nel volume IX; in un paragrafo di un altro libro, invece, si possono ammirare lunghi elenchi di pietanze, un testo chiave per la comprensione del lessico gastronomico locale, nonché una registrazione accurata delle raffinate pratiche indigene, a testimonianza dell’alto grado di civiltà e potenzialità intellettuali raggiunti.

… osserva bene le bevande, gli alimenti, come si preparano, come si fanno, come si migliorano; l’arte delle buone bevande e l’arte dei buoni cibi sono proprietà dei Signori e per questo sono detti diritto/proprietà/destino Tetonal, il cibo dei nobili, le bevande dei sovrani …

Ma perché gli indigeni si prorogarono nel raccontare dei loro cibi permettendo la registrazione dei sapori gastronomici e quindi anche della loro conservazione in una fase storica in cui il sapere locale era sovente svalutato e condannato all’oblio? Avevano forse loro, come il francescano che li ascoltava un movente prettamente politico come suggerirebbe la struttura di quei testi?

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Fonti bibliografiche: Massimo Montanari – Cucina politica, il linguaggio del cibo fra le pratiche sociali e rappresentazioni ideologiche

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